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A Mio Padre
"E' più facile", scrive Pascal , "accettare la morte senza pensarci su, che pensare alla morte" e un modo per non pensarci è il suo rifiuto, il rifiuto e il non perdono per la morte di mio padre.
Viene verificata una trasgressione violenta che ha interrotto bruscamente quella complicità fatta di dialogo, esperienze, emozione e di frasi dette e non comprese, di domande non fatte e di risposte sospese.
Quante cose, dialoghi, esperienze, emozioni, sogni si sono persi e non potrò più avere e quanti ne perderò e riuscirò ad esprimere. E' tutto ciò un continuo tormento, un non perdonare o perdonarsi. Quante colpe e quanti sogni spezzati.
La vita è anche ricerca di sé, ma come ritrovarsi? Per molto tempo fu assai facile quel linguaggio e il suo potere di evocazione da avviluppare a tal punto da fondere gli animi in un unico blocco, ma ecco la malamorte rompere questa simbiosi, a mettere a nudo.
Il peso della sua presenza attraverso le sue opere e il continuo confronto interiore mi ha portato con il tempo a provare la vertigine e l'angoscia esistenziale fino ad arrivare alle soglie di una negatività assoluta, quasi di una rottura davanti ad un abisso senza ricordo.
Mi sono progressivamente isolato dalla realtà che mi circondava e questo isolamento mi ha portato a cercare istintivamente le motivazioni e il senso di una vita che sempre si mescolava con la difficoltà della mia pittura.
In questo silenzio assordante è nata in me l'esigenza di cercare uno spazio mio o meglio un mio paesaggio che piano piano è diventato memoria o frammenti di classicità.
"Ma sradica da me il ricordo/ e il colore delle vecchie ore" (poesia Ansia di statua di Federico Garcìa Lorca).
E così il mio pensiero è ritornato ai suoni continui del battere incessante del mazzuolo sullo scalpello o sgorbia di mio padre scultore; è ritornato ai tronchi accatastati all'esterno e all'interno dello studio dove formavano la mia prima foresta, il mio primo impatto con la natura; è ritornato ai primi odori indimenticabili del legno fresco sguarciato. Uscendo dallo studio e dalla sua foresta artificiale entravo nel bosco reale dove abeti, faggi, frassini avevano le stesse forme familiari modificate nei colori e negli odori. IL LUOGO DELLA MEMORIA.
E il volo del ricordo si inerpica sulle strade di montagna che si nascondono nel bosco dove si andava a scegliere i tronchi che io vedevo spettrali e bianchi e a mano a mano che si saliva si incontrava la viva roccia ai lati della strada con grandi masse astratte di ghiaccio, con trasparenze di luce dove l'occhio vagava, scrutava, sfumava, esaltando le forme.
Così i lunghi ghiaccioli sui fienili mi riportano come rispecchiato un gesto di contrasto non più freddo ma determinato dal fuoco "il ritocco delle cere".
Grovigli di figure in cera nera e bianchi gessi mi accolgono tra crogioli fumanti e colate di bronzo ardente provocando densi fumi e acri odori. E questa immagine che lega nuvole di fumi le une con i ghiaccioli pendenti e le altre con la cera colante, è un ossessivo ricordo di un tempo perduto. Dipingendo questi ricordi, la risoluzione del mio progetto iniziale si trasforma in dissoluzione del pensiero nel momento dell'esecuzione.
Quale può essere la mia vera identità, quale la strada dei miei pensieri?
Ma sono poi veramente miei i pensieri che mi ossessionano?
"Dal tuo pennello fervido,/ma talvolta algido che specchi/ che cieli perduti nei cieli,/..." (poesia "I Paesaggi primi" da Vocativo di Andrea Zanzotto).
Questo mio disagio interiore "Algida che specchi", stato patologico del freddo si materializza in difficoltà o annebbiamento del ricordo e nella disperata necessità del recupero dell'emozione della memoria, di ciò che sembrava ibernato in un mondo che non c'è più ma che ancora vive.
Franco Murer |
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